Le avventure di don Fefè
Il luogo narrativo è un paese immaginario del sud, Cipièrnola, lento e persistente archetipo di quel “sud del sud dei santi”, dominato nella sua piazza principale dal palazzo della famiglia Rizzo Torreggiani Cimboli, di cui Don Felice, detto Fefe’, il protagonista, è l’ultimo discendente. Le vicende narrate si stagliano sulla contrapposizione dicotomica di due mondi differenti e tra loro intimamente indifferenti, che tragicamente finiscono per rimanere impigliati nella stessa grottesca alienazione.
Da un lato il palazzo signorile con i suoi ritmi a-temporali, i ricordi di antichi e gloriosi passati come la vista del Re, i suoi riti come quello del gelato al limone e le sue inservienti. Don Fefè ne è il padrone, “unico erede di ingentissima fortuna “ che passa le giornate tra le incombenze proprie di un nobile di campagna, fugaci incontri amorosi con le domestiche-concubine e i ricordi di quella Parigi dove aveva vissuto per un breve periodo di tempo a casa di uno zio paterno, che frettolosamente “era riparato nella capitale francese per evitarsi le noie del post-fascismo”. A Parigi, Don Fefè, aveva soprattutto amato innumerevoli donne, tant’è che l’Amleto, opera intramontabile da lui così tanto amata, storpiata in “Amuleto” da una sua domestica, non rappresentava che il ricordo più evocativo di una serata consumata in un festino orgiastico con le interpreti della tragedia shakespeariana.
Dall’altro lato il paese, proscenio di un’umanità immobile e perennemente sferzata dalla ferocia di quella fatica che fa curvare la schiena, fisicizzando e rendendo vistose le differenze socio-culturali tra le classi sociali. L’unica speranza per i villani di sfuggire a quella fatica disumana era quella di lavorare a Palazzo Rizzo Torregiani, accettando come regola d’ingresso quella che prevedeva un’interpretazione onnicomprensiva del concetto di “mettersi a servizio” di Don Fefè. E’ Rosaria, neo-domestica di Don Fefè , che sottolinea a colui che invano vorrebbe sposarla che pur di non ritornare a lavorare nei campi, sarà ben lieta di custodire quel fazzoletto rosso -regalo che a Don Fefè piaceva fare alle sue concubine- simbolo del sommo servizio che da lì a poco renderà al suo padrone.
Si mettono al completo sevizio di Don Fefè le donne, concedendosi alle voglie del padrone, e lo fanno anche gli uomini accettando, senza ribellarsi, quel diritto tacito di prelazione sessuale che il “Don” vanta su mogli, figlie e amanti di quanti avessero con lui un rapporto di subalternità.
Alemanno risolve il rapporto servo-padrone di hegeliana memoria non nella denuncia sociale tout court contro un Sud per troppo tempo impigliato in un feudalesimo di fatto, o nel superamento dell’alienazione del servo a scapito del padrone o, ancora, in una contrapposizione materialistico dialettica tra proletariato e capitale, ma nella farsa che spesso trova nella gaffe il suo momento catartico.
Nelle atmosfere polverose tipiche di quel sud che in certe afose giornate estive è cesellato di luce che verso sera sfuma nelle tonalità di rosso rubino simili a quelle del Primitivo, il servo Ciccillo, ignaro figlio di uno zio materno del padrone e di una domestica, diventa una strampalata spalla di Don Fefè, al quale lo lega un rapporto di riverenza non del tutto estraneo a tormentati pensieri di rivalsa, prontamente annegati nel vino.
Il padrone è, invece, un dandy erotomane, sempre alla ricerca di amplessi rubati, capocomico frustrato dall’impossibilità di condividere cn i suoi “co-protagonisti” le proprie presunte verticalità culturali, che erroneamente si convince di poter soddisfare colloquiando con due attori della compagnia teatrale itinerante che a Cipièrnola si apprestava a mettere in scena l’“Amleto”.
La redazione